“Laviolenza sulle donne è la 1° causa di morte e di invalidità permanenteper le donne fra i 14 ed i 66 anni in Europa, ciò nonostante siamo convinte che la violenza non sia il nostro destino. Per questo vogliamo combatterla alle radici prima che si manifesti, nelle strade ma soprattutto nelle case dove ha la sua espressione più continuativa e massiccia e con l’aiuto della scuola luogo di formazione per tutte e tutti. Denunciamo l’uso e l’abuso del corpo della donna sempre esposto, disponibile e lascivo, tanto nei media quanto nellapubblicità che genera la “cultura” dello stupro. Quello che prima era silenzio sulle violenze ora che con l’aumento delle denunce non può più essere tale, diventa strumentalizzazione. Tutti parlano e barattano interessi politici sui nostri corpi.”
Così iniziava un volantino del marzo del 2009 scritto dall’ASSEMBLEA CITTADINA DI DONNE E LESBICHE (BOLOGNA). E con queste stesse parole intendiamo aprire la giornata di oggi.
Del resto la violenza sulle donne (IN QUALSIASI FORMA ESSA SI ESPRIMA, che sia fisica, psicologica, economica o politica) non è un fenomeno nuovo. Come ben sappiamo è onnipresente nel tempo e nello spazio. Non conosce frontiere di classe, di razza, e nemmeno di appartenenza politica.
Ogni giorno siamo sobillate da messaggi che giustificano, legittimano o esercitano questa violenza, messaggi che il più delle volte sono nascosti dietro la maschera dell’ovvietà, della neutralità, e della normalità. Per questo a volte è così difficile anche solo saperli riconoscere. E per questo la nostra esigenza di rivelare le logiche e le retoriche strutturali di questa violenza si fa sempre più pressante. Noi però non ci lasciamo affascinare dalla comunicazione mediatica e di natura demagogica delle istituzioni.
La legge sul femminicidio, approvata qualche giorno fa, ne è un esempio.
Questo testo, a grandi linee, prevede infatti: misure restrittive sullo stalking (facendolo diventare un evento speciale quando è invece purtroppo una prassi), pone l’accento sulla violenza domestica (dimenticando improvvisamente la maniera in cui fino a ieri era stata declinata la violenza sulle donne, ovvero come lo stupro perpetrato dallo straniero ai danni della donna che cammina sola in una città desolata). Tramite la legge sul femminicidio, poi, vengono introdotte tutta una serie di misure di segno altamente repressivo: aumentano le pene per chi si rende autore di violenza, si rende la denuncia per violenza domestica non più revocabile (a parte rare eccezioni), si prevede la possibilità di concedere un permesso di soggiorno per vittime straniere di violenza SOLO ed esclusivamente per quelle donne non di cittadinanza italiana che corrono un rischi serio e attuale per la loro incolumità (quindi, non per tutte le altre…). Senza contare il fatto che all’interno di questa legge sono state infilate tutta una serie di norme che con il femminicidio non c’entrano proprio niente, invece utilizzate per andare ad attaccare altre realtà di lotta territoriale (prime fra tutte, noi NoTav).
Per l’ennesima volta la difesa del corpo della donna diventa il discorso che adotta il potere per legittimare l’introduzione di nuove norme di segno repressivo, così come in passato è stato strumento di legittimazione di guerre o di attacco a fantomatiche altre culture in cui la donna è sottomessa.
Inoltre, il femminicidio ci viene qui proposto come fenomeno emergenziale, scandalo recente, urgenza delle ultime settimane…
Ma noi sappiamo che il termine “femminicidio”, nato in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez, indica una violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna «in quanto donna».
Quindi, francamente, nulla di nuovo per i nostri corpi. “Femminicidio” , c’è sempre stato.
L’errore fondamentale è associare la violenza sulla donna ad un mero reato: il fatto è che chi agisce violenza (fisica, psicologica, economica) lo fa perchè si sente legittimato a farlo.
Sappiamo bene infatti quanto questo sia un fattore strutturale, proprio di una cultura patriarcale. E funzionale ad una struttura economica di stampo capitalistico.
Ai poteri forti serve creare un’immagine della donna come subalterna, per poi erigersi a padre-padrone che accorre in difesa dell’incolumità delle donne della sua nazione. Così il potere si riproduce, così il potere si autolegittima.
Quando consideriamo la legge sul femminicidio, sia chiaro, non vogliamo criticare la maggiore attenzione su questo tema, ma ne denunciamo il Come se ne parla.
A noi interessa scardinare quei meccanismi che portano al perpetrarsi della violenza: di cui il femminicidio, oggi sulla bocca di tutti, ne è solo l’eclatante epilogo.
Ma non siamo solo strumento di riproduzione del potere, sui nostri corpi viviamo ogni giorno le conseguenze di politiche di smantellamento del welfare e del diritto alla salute, basti pensare ai colpi inferti alla legge 194 che legalizza l’aborto in Italia, agli attacchi ai consultori, ormai invasi dai preti, o all’inadeguatezza di una legge come quella sulla procreazione assistita. E non solo…
…sul lavoro, la prima ad essere licenziata o non assunta è la donna., ad esempio. E quando lavoriamo, noi donne, di qualsiasi razza e classe, subiamo il retaggio di una mentalità patriarcale e capitalista: ci troviamo a svolgere il doppio lavoro, quello salariato e quello di cura, Siamo doppiamente esposte al ricatto del licenziamento in caso di maternità, ci viene costantemente ricordato che siamo donne, e che per “riuscire” per “raggiungere i nostri obiettivi” dobbiamo “farci uomini”, “tirare fuori le palle”.
Oggi, siamo qui per prenderci uno spazio. Per parlare di noi, dei nostri corpi, delle nostre storie. Per ricordarci che solo noi dobbiamo avere il controllo sul nostro corpo, sulle nostre esistenze e dei nostri desideri.
Crediamo nella riappropriazione della nostra libertà in senso più puro e nella nostra possibilità di autodefinirci, della possibilità di tutte di decidere per noi stesse.
Viviamo in un sistema finalizzato alla produzione di ricchezza economica per pochi e alla criminalizzazione di ogni altra forma di ricchezza non commercializzabile, individuale e collettiva, come il dissenso. Perché il capitalismo riconosce un solo genere di “uomo”: maschio, bianco, etero e as-soggettato alle regole sociali che ne mantengono i privilegi. Noi, invece, siamo lesbiche, femministe, froce, trans, nere, clandestine e incazzate.
L’obiettivo da perseguire è l’autodeterminazione delle esistenze e dei corpi di ogni donna, che solo attraverso l’emancipazione, l’autorganizzazione, e la lotta al sistema esistente può mettere in crisi e superare la cultura patriarcale della violenza. Il centro forse di tutto è il corpo della donna, il nostro corpo. Il controllo del nostro corpo. E delle nostre esistenze.
Ancora molto altro dovrebbe essere detto e rimangono ancora tante le domande, per questo stasera vogliamo proporvi altri spunti di riflessione attraverso il lavoro di “Attrice contro”.